Nella giornata dell’astensione dal lavoro degli immigrati, presentiamo le parole pronunciate da Don Pierluigi Di Piazza e Daniel Samba a Tolmezzo, nell’incontro/dibattito di lunedì scorso dal tema: “L’integrazione al tempo degli slogan”
“Se per un giorno l’Italia dovesse vivere senza stranieri, e pensiamo ad esempio solo alle donne che lavorano nelle case – si fermerebbe. Non sarebbe possibile, sprofonderebbe nel Mediterraneo”. Queste parole, pronunciate una settimana fa da Don Pierluigi Di Piazza, sono oggi attualissime, nel giorno dello “sciopero degli stranieri” organizzato, si legge nel sito del comitato promotore, “per far capire all’opinione pubblica italiana quanto sia determinante l’apporto dei migranti alla tenuta e al funzionamento della nostra società”.
Del rapporto con gli stranieri si è dibattuto lunedì scorso durante l’incontro organizzato da Officine Tolmezzine dal titolo “L’integrazione al tempo degli slogan”. Approcci diversi, quelli dei due ospiti, ma tendenti al medesimo obiettivo: spogliare i ragionamenti sul rapporto con gli immigrati da slogan e impostare invece un ragionamento di comprensione il meno possibile demagogico. Si tratta di una questione di atteggiamento, e di introspezione psicologica, spiega Di Piazza, che prima di guardare all’altro, invoca un’analisi interna: “Il primo ‘altro’ con cui abbiamo a che fare, è l’altro che ci abita dentro. Non siamo un io monolitico, ma una serie di diversità che ci strattonano, fatte di sentimenti, pulsioni, aggressività, e comporle è difficile”.
E se Samba, autodefinitosi “Il furlan piturât di neri”, è stato capace di indurre applausi e risate, usando il registro dell’autoironia (“no steit a lavorâ come neris”) aiutato in questo dalla padronanza della lingua friulana, che in bocca a un nero spiazza l’interlocutore, più elaborato è stato l’intervento del fondatore del centro Balducci a Zugliano.
Di Piazza è partito dal febbraio di 22 anni fa, quando alla porta del centro bussarono alcuni ghanesi, “erano l’avamposto di un’innumerevole fiumana di immigrati che sarebbero arrivati”. E pensare che il centro Balducci non fu costruito per gli stranieri in particolare: “utilizzammo il contributo regionale per la ristrutturazione della casa parrocchiale non per farne la villa del parroco e di chi gli bazzica attorno, ma per le persone bisognose, non erano previsti gli stranieri. Oggi ce ne sono circa cinquanta”.
Contro demagogia, populismo e pressapochismo, Di Piazza avverte che la “migrazione è un fenomeno complesso, che chiede serietà e risposte progressive”, dicendosi “sorpreso” del fatto che “la nostra memoria storica qui non porti a una disponibilità maggiore. Si dice ‘ma noi eravamo diversi’: è vero solo in parte”. Per dimostrarlo ha citato Don Ascanio Micheloni, il monsignore di Buttrio che fu mandato in Germania ad assistere gli emigranti friulani in Germania dal 1938, “venivano quasi tutti dal sud, in gran parte analfabeti e quasi tutti clandestini” (Vedi libro: Saarbrucken: nasce una missione, note e ricordi di don Ascanio Micheloni); tanto che, una volta ottenuto il passaporto, questo veniva consegnato con una certa ritualità dopo la messa “come se fosse una continuazione della celebrazione, perché era come garantire il pane”.
Di Piazza ha poi toccato il tema della necessità che spinge ad emigrare, attraverso “l’intuizione poetica di Leonardo Zanier che ha coniato, da poeta emigrante una folgorazione, paradosso, aporia; la frase “Libers… di scugnî lâ”, che rappresenta il dramma di ogni emigrazione, fatta di ‘libera’ costrizione”.
La presenza dell’immigrazione degnala che, secondo Di Piazza, “il pianeta è avvolto da un’ingiustizia strutturale e da violenze e guerre. Si scappa a causa delle ingiustizie” e per sfuggirne. “Rivela poi il bisogno che abbiamo degli stranieri e la pluralità di culture, sotto forma di diverse religioni, cibi eccetera, che ci fa uscire dal provincialismo. Siamo stati diseducati a pensare che noi – occidente – siamo il mondo, in realtà siamo una delle tribù della terra”.
Il sacerdote ha poi inteso smontare alcuni luoghi comuni “si dice che gli stranieri occupano gran parte delle case popolari, in realtà si tratta del 3 per cento. La Lega Nord poi mette sul tavolo della riforma sanitaria la chiusura delle cliniche per clandestini. Non è vero: non esistono cliniche per clandestini! ma ambulatori per stranieri regolari e senza documenti”: Qui ha aperto una parentesi sulla definizione stessa di clandestino, spiegando che non è corretto definirli tali, meglio sarebbe adottare la definizione francese, di “sans papier”, senza documenti. Quindi ha fornito alcuni numeri: “In Italia ci sono 4 milioni e 300 mila immigrati presenti regolarmente (100 mila dei quali in Friuli), che equivalgono al 7,2 per cento della popolazione. Sono 860 mila i bambini figli di genitori stranieri, che rappresentano un decimo dei minori, secondo i dati del dossier migrantes della Caritas. 40 mila stranieri acquisiscono annualmente la cittadinanza italiana e i matrimoni misti sono 24 mila. Infine sono 6000 le persone straniere che si laureano ogni anno”.
Per ciò che concerne l’approccio al tema dell’immigrazione, ha introdotto il tema della paura per il diverso, così come trattato da Massimo Cacciari, sostenendo che sarebbe scorretto negarla: “La paura va assunta, occorre prendersene cura, farla evolvere, ragionarci sopra e insieme, dandole risposte progressive e collocandola”. Atteggiamento diverso da chi “come la Lega, la paura la cavalca, amplificandola, per poi dire che arriva dalla gente. Ricordiamoci che la politica deve guidare, non fomentare”. Con queste premesse succede quindi che “le risposte siano conseguenza della amplificazione della bolla della paura, come successo con il decreto sicurezza. Prendiamo ad esempio le ronde: dove sono le ronde in Friuli? Sindaci come Di Piazza a Trieste, Romoli a Gorizia e Honsell a Udine hanno detto che non servono le ronde. Resta la gravità della messa in scena”.
Come evitare le strumentalizzazioni? “Opponendosi di fronte alle falsità: occorre dire la verità. Avere la forza di replicare a chi dice bugie”, così come bisogna “saper rispondere a chi ha paura, senza limitarsi a dire che è un razzista”.
Insomma: la paura è legittima, meno la sua amplificazione “Ad esempio, sulla criminalità degli stranieri, occorre dire che le denunce penali attuali sono quante quelle degli anni novanta”, quando cioè di stranieri ce n’erano di meno. Nondimeno “anche la microcriminalità degli stranieri esiste, è vero, ma va affrontata e spiegata, spesso figlia della esclusione sociale di chi è esposto a necessità materiali e finisce nella rete della criminalità organizzata”.
Sul tema della cooperazione internazionale, Di Piazza non ha fatto sconti: “l’unica vera cooperazione internazionale è data dai soldi che gli immigrati spediscono da qua ai loro paesi, le rimesse degli stranieri a casa”. Quindi ha accennato ad una classificazione dei “razzismi”. C’è quello “Qualitativo, degli sguardi, delle battute, di chi cambia fila al supermercato o marciapiede”, ricordando che, per dirla alla Ben Jelloun “Sulle questioni importanti non si devono fare battute”. C’è poi il “razzismo culturale. Non siamo nel determinismo biologico, ma al: tu sei nero e noi no, ognuno stia a casa propria. I neri ci sono, ma stiano per proprio conto. C’è quindi il razzismo politico, che ha vissuto il culmine l’8 agosto, con il decreto sicurezza, che contempla che una persona è delinquente non per quello che fa, ma per quello che è”. Infine c’è il “razzismo religioso. Quando si considera migliore la propria religione è già razzismo, occorre vivere la fede come apertura all’altro. Invece il crocifisso è stato perfino utilizzato come arma contro l’identità degli altri”. Qui Di Piazza si è soffermato sull’introduzione del crocifisso nell’aula del Consiglio regionale dicendo: “auspicherei che chi lo ha messo, ogni giorno all’ingresso gli dia uno sguardo, per trarne ispirazione, così farebbe il contrario di quanto ha fatto”, premettendo che lui stesso si definisce “laico, umile credente in ricerca e anche prete, dove per prete intendo una funzione di servizio, non un potere”.
Poi ha affrontato il nucleo del rapporto con lo straniero, che coinvolge il nostro modo di “incontrarci con ogni altro”, scongiurando la “tentazione che porta a sentirci padrone dell’altro, dimenticando che siamo diversi, non inferiori o superiori. E questo vale nei confronti di ogni persona: disabile, bambino, anziano. Non possiamo pretendere l’omologazione culturale”; così, ad esempio, “non posso pretendere che uno del Camerun si svuoti della propria cultura, altrimenti non riusciremo mai a incontrarlo. Occorre riconoscere pari dignità ad ogni persona, che deve essere accolta come possibilità, non con paura”. E per fare questo “non basta una cena multietnica”, così come “Non si può ridurre il dialogo culturale a folklore. Il cibo multietnico ha senso se si condivide dentro”, contro “il consumismo della diversità”. Ecco che, in definitiva “Non dobbiamo pretendere che l’altro per starci vicino rinunci alla sua diversità”. Quindi due parole su chi vuole negare la possibilità ai mussulmani di avere una sepoltura dedicata “è una cosa abominevole, manca proprio la pietas umana anche verso i morti”, invitando invece a pensare all’arricchimento interiore: “camminare in mezzo ai sepolti, di diverse religioni, mi arricchisce, perché mi fa pensare alle loro storie”. E attenzione, perché “non c’è violenza più grande nella storia, di quella fatta in nome di dio” (Turoldo).
Infine un accenno alle possibili soluzioni: “Investire sulla cultura e in situazioni in cui ci si incontra. Lavorando con le scuole ho poi notato che gli studenti hanno interesse quando il discorso sull’immigrazione non è vago, ma basato su storie singole, di chi è arrivato qua, con quali mezzi, su quale tragitto, con quali sofferenze. Attraverso le storie possiamo incontrarci, non attraverso la teorizzazione”. Ma per fare questo serve un’azione politica “perché la politica è imprescindibile e le decisioni sono indispensabili”. Sul quadro politico attuale si è detto “molto preoccupato”, con riferimento ai risvolti giudiziari che coinvolgono il vertice della protezione civile, che denotano “onnipotenza di poter decidere al di là delle verifiche, tutto in nome delle emergenze. Si tratta di una spregiudicatezza incommensurabile di chi si sente onnipotente e dice: noi possiamo fare tutto, senza verifiche civili ed etiche”.
Bellissimo aver sentito e partecipato! La paura va coltivata, capita ed affrontata non sicuramente cavalcata o fomentata per motivi elettorali
La classificazione del razzismo. Quello di chi cambia fila o bar, quello politico, quello culturale e quello religioso.
A parte tutto, sono contento che i ragazzacci di OT cerchino di ricreare una discussione culturale diversa e laica su argomenti attuali, prendendo il posto lasciato vacante, spero per poco, dall’associazione ” Torre Picotta”
Vi aspetto al prossimo confronto