Intervista col viandante e giornalista Alessandro Gori che ci porta in Caucaso, attraverso i Balcani, tra analisi storiche e ospitalità etiliche
Questa estate ha raggiunto il Caucaso in due mesi, senza mai prendere l’aereo, partendo dalla sua terra d’origine: la Carnia. Rientrato da Tbilisi (Georgia) Alessandro Gori, 39 anni, viaggiatore, giornalista e osservatore per l’Unione Europea, parlerà di questa sua ultima avventura domenica 8 novembre a Udine, alle 18.30 presso la libreria Odòs, nell’ambito di Fuorirotta. Lo abbiamo incontrato in anteprima a Enemonzo, il paese in provincia di Udine dove sta – poco – quando non è in giro per il mondo. Esperienza coinvolgente, intervistarlo, e diciamo ostica, per chi non abbia dimestichezza con i superalcolici. Dopo averci condotto in cantina, dove custodisce come in un caveau le pubblicazioni suddivise per aree geografiche (le sezioni principali sono: Balcani, Argentina, Brasile e resto del mondo), ci siamo sottoposti al rito dell’assaggio reiterato della šljivovica, il distillato delle terre balcaniche che ti si fionda dritto nello stomaco, spesso raschiandoti l’esofago come un acuto di tromba.
Laureato con una tesi scritta in portoghese dal titolo “Musica popolare e società in Brasile durante la dittatura militare. Chico Buarque e Caetano Veloso”, Gori parla sette lingue (italiano, portoghese, catalano, castigliano, inglese, francese, serbo), ha invidiabili competenze nel campo della storia dei Balcani, con specializzazione musicale e calcistica: ad esempio il catalano lo ha imparato perché tifava, e tifa, per il Barcellona. Giramondo, è in Serbia che si sente più che altrove a casa propria, tanto da aver curato assieme al compagno di viaggi Andrea Pilia la versione in italiano della guida turistica “Serbia a portata di mano”, edizioni Komshe. E siamo partiti da quella terra, per un’intervista che ci porterà oltre la sponda orientale del Mar Nero.
Ci puoi descrivere la guerra nei Balcani in 140 caratteri al massimo?
“La più grossa operazione mafiosa degli ultimi trent’anni”.
Perché?
“Perché i soldi fatti su questa guerra e sugli embarghi sono stati la parte più importante della vicenda. I politici hanno soffiato sul fuoco che covava sotto la cenere: Milošević con i Serbi, Tuđman con i croati e Izetbegović con i bosniaci. Con i precedenti di uccisioni in nome dell’etnia, avvenute fino alla fine della seconda guerra mondiale, era facile evocare queste sensazioni, tenute coperte da Tito nella Jugoslavia unificata. Così si assisteva a istigazioni di questo tipo: ‘ti ricordi quando eri piccolo e a tuo zio hanno aperto il collo in giardino? Ecco, adesso prima che succeda a te la stessa cosa, prendi le armi e combatti’. Ancor prima della guerra, per scaldare gli animi del nazionalismo, venivano trasmessi in televisione video che ritraevano attacchi e violenze con il taglio di genitali poi messi in bocca, ad esempio in Slavonia, con l’ovvio scopo di aizzare il conflitto.Queste erano il genere di istigazioni che avvenivano, mentre i politici facevano affari tra di loro. Perciò dico che la prima vittima di Milošević sono stati i serbi e la Serbia. Grazie a lui e a Tuđman non ci sono più serbi in Croazia dopo 500 anni. L’embargo nei confronti della Serbia scattato il 31 maggio 1992 e durato fino a Dayton è stato un grosso affare e in questo periodo (a parte una brevissima parentesi) l’Italia non ha avuto bisogno di visto, con facilitazioni di ingresso anche per chi gestiva giri illeciti. La “tigre”Arkan (Željko Ražnatović, paramilitare serbo, autore di efferati crimini contro l’umanità, ndr) è un personaggio che si cala alla perfezione in questo contesto: lui non era la cupola, ma un esecutore. C’è forse qualcuno che pensa che abbia fatto il bene del popolo serbo? La più bella spiegazione della guerra forse fu la prima pagina del Feral Tribune, (nato come inserto del giornale di Spalato, Slobodna Dalmacija) una rivista satirica che era l’unico mezzo di comunicazione libero in Croazia durante gli anni di guerra, che in un fotomontaggio mostrò Milošević e Tuđman a letto che si amoreggiavano”.
Quanto è ancora vivo il mito della Grande Serbia?
“Rispondo con una barzelletta montenegrina: la Serbia è come i Nokia, diventa sempre più piccola”.
Definiresti ogni popolo che vive nei Balcani con un aggettivo?
“No. Ciò che combatto è proprio l’appioppare definizioni a un popolo”.
Un commento sulla recentissima cancellazione del gay Pride a Belgrado.
“Il primo e unico gay pride tenuto a Belgrado risale al 2001 e fu l’unica volta che i gruppi ultras di Stella Rossa e Partizan Belgrado hanno fatto un’azione comune: per il pestaggio dei gay. Da quella volta non è mai stato riproposto, perché non ci sono le condizioni. Ma a Zagabria sarebbe lo stesso, così come in tutti i Paesi dell’Europa orientale con società patriarcali e maschiliste”.
Ai serbi interessa entrare in Europa?
“La loro priorità ora non è l’Europa. Il problema principale è l’economia ridotta malissimo, il lavoro e avere salari decenti. Inoltre c’è il problema dei visti. Dal 1992 il paese è ‘isolato’ per i demeriti dei propri governanti, ma non solo. L’Europa ha fatto errori: se mantieni un popolo rinchiuso o se non lo metti nelle condizioni perché si possa aprire, lo mantieni in isolamento e quindi aumenti le probabilità che voti per i partiti nazionalisti. Ci è mancato poco e poco vale che una settimana prima del voto vengano proposti accordi europei che in realtà sono carta straccia. Ottenere il visto turistico è laboriosissimo, oltre a richiedere una lettera di garanzia. Ciò pesa ancor di più se si pensa che il passaporto rosso jugoslavo era il migliore al mondo e il più costoso al mercato nero, dato che consentiva di venire in occidente ma anche nel blocco sovietico senza visto”.
E la Turchia? È pronta?
“Dipende. Istanbul è Europa. Poi hai l’Anatolia che è medioevo. C’è però un’ipocrisia di fondo: un paese islamico non pare essere così benvoluto, ma non lo si dice troppo”.
Passiamo alla Georgia. È vero che se un gemellaggio è possibile tra friulani e georgiani, questo sarebbe nel nome del vino?
“Sì, anche se la gente di qua è al livello dell’asilo, rispetto ai georgiani per quanto bevono!”.
Quali sono le differenze tra il mondo balcanico e quello caucasico?
“Direi piuttosto cosa li accomuna: la grande ospitalità e generosità, in contrasto con i disastri degli ultimi anni. Fanno a gara per accoglierti. Un esempio: stavo andando in Abkhazia, regione separata riconosciuta da tre Paesi dove ci fu una guerra agli inizi degli anni Novanta. Ai georgiani dà fastidio la sua indipendenza. Ci si arriva attraverso la città di Kutaisi per mezzo di un treno notturno. Alle sei di mattina giungo a Kutaisi. Tutto è calmo e chiuso. Percorro un chilometro a piedi verso il centro e trovo un unico bar aperto. All’interno ci sono solo due persone: un cliente ubriaco e il gestore, cui chiedo se posso avere un te, mi risponde di no, che devo aspettare le donne, che lui non sa farlo. Mi siedo e l’ubriaco mi chiede perché mi sia sistemato lontano. Mi invita ad avvicinarmi a lui e mi offre un bicchiere di vino, poi una vodka. La cosa peggiore è che in un’ora mettono su sei volte L’italiano di Toto Cotugno. L’anno scorso Cotugno ha tenuto due concerti in Georgia e uno in Armenia, è molto popolare. Infine arrivano le donne e preparano i khinkali, i tipici ravioli georgiani. Alla fine esco alle 8 che sono storto. Hanno pagato tutto loro!”.
Nelle terre ex sovietiche e in quelle ex jugoslave che rapporto c’è con l’ex regime?
“Nella ex Jugoslavia da una parte quasi tutti i serbi sono contro Tito. Ma d’altro canto i meno giovani ricordano che sotto di lui stavano meglio, benissimo, con stipendi alti e maggiore libertà di movimento. Diverso il discorso nel Caucaso: lì il regime era molto più duro, sebbene i georgiani fossero più liberi e potessero usare la propria lingua. Ora odiano la Russia e i russi. Nei Balcani senti da ogni parte la stessa storia: ognuno si lamenta di ciò che ha subito, e nessuno pare capace di ammettere o criticare quello che ha fatto. I Serbi a Srebrenica o Vukovar, i Croati a Mostar e via dicendo. Tornando ai paesi ex sovietici, a parte l’Ucraina occidentale, c’è sempre Lenin in tutte le piazze, ma ciò non significa che si ami l’Unione sovietica”.
Perché la Stella Rossa di Belgrado, altra squadra di cui sei tifoso, non ce la fa più ad emergere nel calcio europeo?
“Non è un problema solo suo, ma di molti stati dell’est dove la vita è un disastro, figuriamoci il calcio, a parte quando trovi un mafioso che tira fuori i soldi. In Serbia è ancora peggio per un problema strutturale: le società sportive sono legalmente ancora di proprietà dello stato. Sono molto critico con alcuni calciatori serbi, invece i giocatori di basket hanno vinto Europei, Mondiali e Olimpiadi perché si impegnavano moltissimo. Un esempio: il cestista Vlade Divac pagava di suo per venire dagli USA, dove giocava nei Lakers nell’NBA per le partite della nazionale, questo per la gente. Nel calcio è diverso, peccato, perché la gente ha fame di calcio”.
Il nome di una promessa del calcio balcanico.
“Nessuno. Se devo fare un nome mi sento semmai di fare quello di Radomir Antić, ex allenatore dell’Atletico Madrid e ora della nazionale serba. Anche grazie a lui la squadra ha vinto il difficile girone di qualificazione ai prossimi mondiali di calcio in Sudafrica, è molto preparato ed esperto: in questi momenti il ruolo dell’allenatore è ancor più fondamentale”
Come è composto il tuo zaino, sempre che usi lo zaino?
“Si, di zaino si tratta. Ne ho avuto uno dal 1992 a quest’anno. È appena andato in pensione, ora ne ho preso uno che non si apre da sopra e che si può chiudere con il lucchetto. Non è grandissimo, il mio problema non sono i vestiti, ma l’accumulo di carta. La cosa più importante è però uno zainetto più piccolo dove metto computer e macchina fotografica”.
A raccogliere quello che hai visto ce ne vorrebbero di libri, e tanti, no?
“Meglio non parlarne va. Dovrei trovare qualcuno interessato a pubblicarli, e soprattutto finirli. Ma per fare questo mi dovrei chiudere in un monastero senza vedere nessuno per qualche mese a libro, ma è difficile che capiti con il mio nomadismo: l’ultima casa che ho avuto è stata a Barcellona, fino all’aprile del 2001… da allora sono più o meno in movimento”.
Francesco Brollo
Approfondimenti:
Alessandro Gori sta completando il blog che racconta con immagini, testi e audio, il suo ultimo viaggio dalla Carnia al Caspio. Eccolo.
Assieme a Stefano Missio è autore del documentario “La Repubblica delle Trombe”, documentario dedicato alla già leggendaria cultura musicale serba, proiettato in oltre quaranta festival in tre continenti.
La tesi dei capi politici che aizzavano i propri popoli iniettando loro potenti dosi di nazionalismo guerrafondaio, mentre sottobanco trattavano tra di loro e con le organizzazioni mafiose, è richiamato in questo post del blog di Gori.
Qui il sito di Fuorirotta, con il programma degli incontri.
Grande Aleeeee!
Dico sempre che sei grande! (e bravo anche)
Ale, me encantó!!!
Buenísimooooo!!!!
Super amable, cálido y descriptivo de tu vida y de tu tarea…
Sorry, no te veo recluido para escribir un libro….me temo que morirías asfixiado.
Gracias por compartirlo.
Somos tus fans de Argentina!!!!!
[…] Per approfondire su Alessandro Gori: – Il blog “Via terra dalla CARNIA al CASPIO (se mai ci arriverò)”, curato da Gori e soci – Il documentario sul Festival di Guča a cura di Gori e Stefano Missio – “Una vodka alle sei di mattina”: intervista a Gori di TolmezzoNews […]
[…] L’anno scorso sullo stesso blog era uscita quest’intervista. […]